E arriva Mamma Rai. D’accordo, è “solo” una troupe della sede regionale. Ma il servizio è di quelli “importanti”, finirà su Rai Uno, made in “Tv7”. Mica cotiche.
Il caso del feto “ucciso” per la truffa alle Assicurazioni, vero o presunto che sia, “tira” anche sulle Reti nazionali. E il cronista Riccardo Giacoia, figlio di quell’Emanuele prima eroe di Novantesimo Minuto e poi tra i padri-padroni della Rai cosentina, ci inzuppa il pane.
Il servizio vuole avere un piglio documentaristico. Ma le buone intenzioni iniziali si rivelano subito molto presunte pure esse. Giacoia non commenta, fa l’inglese, non prende posizione. Fa la “parte terza”… ma poi cade nei tranelli (voluti o inconsapevoli?) della classica moda di puntare il dito, sempre e comunque. E non va bene.
Andiamo oltre le eventuali colpe del caso, stavolta. Analizziamo il linguaggio – inteso come struttura giornalistica – usato nel servizio in questione. Per esempio, Giacoia fa una capatina dalle parti dell’abitazione del dottor Garasto e qui l’inglese scompare. Mentre ne chiede qualcosa a un vicino, ecco il primo paio di scivolate.
“Questa villa – sibila con un accento all’apparenza ingenuo – chi sa quanto gli è costata”. Chi sta dall’altra parte del televisore ci ragiona: eh già, ‘na villa così, avrà dovuto inventarsi qualcosa, il medico, per costruirsela… Basta un secondo passaggio per chiudere il cerchio della condanna mediatica: Giacoia ricorda che la moglie di Garasto ha fatto parte della Giunta sciolta per mafia. Non dice mica una bugia: ma che c’entra?
Anche la scelta degli intervistati e delle immagini non è felice. In questa città non esiste una classe dirigente sana? Non esistono operatori culturali? Non ci sono angoli cittadini meno tristi della carrellata di camper e furgoni occupati dai meno abbienti tra gli immigrati presenti sul territorio? E non basta.
Fabiana. Non può non scapparci il ricordo di quest’altro orribile evento recente. Corigliano, spiega Giacoia, prima ha vissuto l’omicidio della povera 16enne e ora replica con il feto forse lasciato morire da una banda di truffatori. Dobbiamo obiettare come gli intervistati che, forse per difendere l’amore per il campanile coriglianese, si nascondono a più riprese dietro la debole replica “ma succedono anche al Nord, ‘ste cose”?
Non rispondiamo così. Ma certo, possiamo dire che questo tipo di servizio è viziato da un errore originario: non si fa inchiesta così. Non si condanna una comunità. Neppure chi è indagato si merita una sputtanata del genere. “Ma il giornalista che ha detto? Ha avuto un atteggiamento distante”: non ci illudiamo al cospetto di simili obiezioni.
In un articolo o un servizio giornalistico, una parola di meno o di più è un macigno. Così per le immagini. Questo servizio non ci piace. Non ci piace questo mercimonio del nostro Sud. Non perché chiudiamo gli occhi e non sappiamo che qui vivano sin troppi furbi e delinquenti. Ma confezionare sempre una simile “patente” no, non va bene.
Corigliano e la Sibaritide sono questo e altro. Soprattutto altro. Altro e di meglio. Ogni tanto, caspita, ditelo!
(2 febbraio 2015 – facebook)